Proponiamo oltre alle letture dei libri di Jhon Zerzan, questo estratto sull’agricoltura convinti che un nuovo abitare non possa che ripartire da una analisi e rilettura profonde della società in cui viviamo:
AGRICOLTURA
di John Zerzan
tratto da Terra Selvaggia #5 (aprile 2001)
L’agricoltura, fondamento indispensabile della civilizzazione, fa la sua comparsa originaria una volta emersi tempo, linguaggio, numero e arte. Alienazione che si materializza, l’agricoltura è il trionfo del distacco e della definitiva separazione tra cultura, natura ed esseri umani.
L’agricoltura è la nascita della produzione, nella sua caratteristica essenziale di deformazione della vita e della coscienza. La terra stessa diventa lo strumento di produzione e le specie viventi del pianeta i suoi oggetti. Selvatiche o addomesticate, erbacce o colture esprimono quella dualità che storpia l’anima del nostro essere, introducendo, relativamente in fretta, il dispotismo, la guerra e l’impoverimento della civiltà avanzata su quell’unione con la natura che caratterizzò l’era precedente. La marcia forzata della civilizzazione, che Adorno riconobbe nella “ipotesi di una catastrofe irrazionale all’inizio della storia”, che Freud considerò come “qualcosa di imposto a una maggioranza renitente”, in cui Stanley Diamond ritrovò soltanto “coscritti, non volontari”, fu dettata dall’agricoltura. Mircea Eliade valutò giustamente che il suo avvento “provocò sconvolgimenti e collassi spirituali” di cui la mentalità moderna non può neanche immaginare la portata.
“Livellare, standardizzare il paesaggio umano, cancellarne le irregolarità e bandire le sue sorprese”, queste parole di E.M. Cioran si applicano perfettamente alla logica dell’agricoltura, incarnazione e generatrice di un’esistenza divisa, termine della vita come attività principalmente sensuale. Fin dal suo inizio l’artificialità e il lavoro sono aumentati costantemente e li conosciamo come cultura: addomesticando piante e animali l’uomo necessariamente addomesticò sé stesso.
Il tempo storico, come l’agricoltura, non è insito nella realtà sociale ma è un’imposizione su di essa. La dimensione del tempo, o storia, è funzionale alla repressione, basata sulla produzione o agricoltura. Nella sua immediatezza e spontaneità, la vita dei cacciatori-raccoglitori era contraria al tempo, mentre quella dei coltivatori genera un senso del tempo con la rigidità dei suoi continui impegni e la sua ordinata routine. Non appena l’apertura e la varietà della vita del Paleolitico lasciarono il posto alla letterale chiusura dell’agricoltura, il tempo prese il potere e finì per assumere il carattere di uno spazio chiuso. I punti di riferimento formalizzati del tempo – le cerimonie con date prefissate, il dare un nome ai giorni, ecc. – sono cruciali per l’ordinamento del mondo della produzione: come una tabella produttiva, il calendario è complementare alla civilizzazione. Al contrario, non solo la società industriale sarebbe impossibile senza orari, ma la fine dell’agricoltura (base di tutta la produzione) significherebbe la fine del tempo storico.
La rappresentazione inizia con il linguaggio, strumento per imbrigliare il desiderio. Sostituendo le immagini autonome con simboli verbali, la vita viene ridotta e sottomessa a un rigido controllo; tutta l’esperienza diretta, non mediata, viene sussunta in quel modo supremo di espressione simbolica che è il linguaggio. Il linguaggio frammenta e organizza la realtà, come dice Benjamin Whorf, e questa segmentazione della natura, che è un aspetto della grammatica, prepara il terreno all’agricoltura. Julian Jaynes, infatti, arriva alla conclusione che la nuova mentalità linguistica ha portato direttamente all’agricoltura. Senza dubbio, la cristallizzazione del linguaggio nella scrittura, imposta soprattutto dalla necessità di tenere il conto delle transazioni agrarie, è il segnale che la civilizzazione è iniziata.
Nell’etica egualitaria e non mercificata dei cacciatori-raccoglitori, basata (com’è stato spesso rimarcato) sulla condivisione, non c’era l’esigenza del numero. Non c’era motivo di quantificare, né di dividere ciò che era intero. Questo concetto culturale non emerse pienamente finché non comparve l’addomesticamento di animali e piante. Due rappresentanti dello stato embrionale del numero testimoniano chiaramente la sua alleanza con la separazione e la proprietà: Pitagora, cardine di un culto del numero molto influente, ed Euclide, padre della scienza e della matematica, la cui geometria ebbe origine per la misurazione dei campi per motivi di proprietà, tassazione e lavoro degli schiavi. Una delle prime forme di civilizzazione, il riconoscimento del ruolo di capo, implica un ordine lineare di rango in cui ad ogni membro è assegnata un’esatta posizione numerica. Dopo la linearità contro natura della cultura dell’aratro, apparve ben presto l’inflessibile planimetria reticolata ad angolo retto di ogni città antica. La loro insistente regolarità costituisce di per sé un’ideologia repressiva. La cultura, ora numerizzata, diventa più rigorosamente limitata e priva di vita.
Anche l’arte, nella sua relazione con l’agricoltura, evidenzia entrambe le istituzioni. Inizia come strumento per interpretare e sottomettere la realtà, per razionalizzare la natura, e si conforma al grande punto di svolta rappresentato dall’agricoltura nei suoi tratti essenziali. Le pitture rupestri preneolitiche, ad esempio, sono vivaci e nette, un’esaltazione dinamica della grazia e della libertà animali. L’arte dei contadini e dei pastori del Neolitico, invece, si irrigidisce in forme stilizzate; Franz Borkenau descrisse le ceramiche di questo periodo come un ” raffazzonamento timido e limitato di materiali e forme.” Con l’agricoltura l’arte ha perso la sua varietà e si è uniformata in disegni geometrici tendenti a degenerare in motivi noiosi, ripetitivi, riflesso perfetto di una vita standardizzata, confinata, modellata dalle regole. E mentre nell’arte del Paleolitico non ci sono state raffigurazioni di uomini che uccidono altri uomini, nel periodo del Neolitico si fa strada l’ossessione di dipingere scontri tra persone, e le scene di battaglia iniziarono ad essere comuni.
Tempo, linguaggio, numero, arte e tutto il resto della cultura, che precedono e conducono all’agricoltura, si basano sulla simbolizzazione. Così come l’autonomia precedette addomesticamento e autoaddomesticamento, il razionale e il sociale precedono il simbolico.
La produzione di cibo, come si continua ad ammettere con gratitudine, “permise lo sviluppo delle potenzialità culturali della specie umana.” Ma cos’è questa tendenza verso il simbolico, verso l’elaborazione e l’imposizione di forme arbitrarie? È una crescente capacità di reificazione, mediante la quale il vivente diventa reificato, simile a una cosa. I simboli sono qualcosa di più delle unità di base della cultura: sono dispositivi di schermatura che ci distanziano dalle nostre esperienze. Classificano e riducono “per eliminare”, secondo una notevole affermazione di Leakey e Lewin, “il fardello altrimenti pressoché intollerabile di collegare un’esperienza all’altra.”
Pertanto la cultura è governata dall’imperativo di ri-formare e subordinare la natura. In quanto ambiente artificiale, l’agricoltura realizza questa mediazione cardinale, manipolando il simbolismo degli oggetti nella costruzione di rapporti di dominio. Giacché non è solo la natura esterna ad essere soggiogata: la vita preagricola vissuta faccia-a-faccia di per sé limitava severamente la dominazione, mentre la cultura la estende e la legittima.
È probabile che già durante l’era paleolitica certe forme o nomi furono attribuiti ad oggetti o idee, in modo simbolico ma in senso mutevole, transitorio e forse scherzoso. La volontà di sicurezza e identità riscontrata nell’agricoltura significa che i simboli divennero statici e costanti quanto la vita agricola. Regolarizzazione, definizione di norme, differenziazione tecnologica interagiscono sotto il segno della divisione del lavoro per motivare e far progredire la simbolizzazione. L’agricoltura completa l’avvicendamento simbolico, e il virus dell’alienazione sopraffà la vita libera e autentica. È la vittoria del controllo culturale; come sostiene l’antropologo Marshall Shalins, “Con l’evoluzione della cultura la quantità di lavoro pro-capite aumenta e quella di piacere pro-capite diminuisce.”
Oggi i pochi cacciatori-raccoglitori sopravvissuti occupano le zone del mondo meno “interessanti economicamente” in cui l’agricoltura non è ancora penetrata, come tra le nevi degli Inuit (“Eschimesi”) o nel deserto degli aborigeni australiani. Eppure, il rifiuto del faticoso lavoro agricolo, anche in circostanze avverse, ha i suoi vantaggi. Gli Hazda della Tanzania, i Tasaday delle Filippine, i !Kung del Botswana oppure i !Kung San (“Boscimani”) del deserto del Kalahari – che Richard Lee ha visto sopravvivere tranquillamente ad una grave siccità di diversi anni mentre i vicini coltivatori morivano di fame – testimoniano quanto riassunto da Hole e Flannery: “Nessun gruppo al mondo ha più tempo libero dei cacciatori-raccoglitori, che lo passano principalmente giocando, conversando e rilassandosi.” Service giustamente attribuisce questa condizione alla “semplicità stessa della tecnologia e alla mancanza di controllo sull’ambiente” da parte di questi gruppi. Tuttavia i metodi semplici usati nel paleolitico erano a modo loro “avanzati”. Consideriamo una tecnica basilare come il cucinare cibi a vapore con delle pietre roventi poste in una buca coperta; questa è immemorabilmente più antica di qualsiasi stoviglia, bollitore o cesta (in effetti orientandosi verso il non-surplus, il non-scambio, è contraria al concetto di contenitore), ed è la maniera di cucinare più sensata dal punto di vista nutritivo, molto più salutare rispetto a bollire i cibi nell’acqua, ad esempio. Oppure la creazione di utensili di pietra come i coltelli “a foglia di alloro”, lunghi ed eccezionalmente sottili, delicatamente scheggiati ma robusti , che le moderne tecniche industriali non possono riprodurre.
Lo stile di vita di caccia e raccolta rappresenta l’adattamento più duraturo e di maggior successo mai raggiunto dall’umanità. Certi fenomeni occasionali dei tempi preagricoli, quali la raccolta intensiva di cibo oppure l’uccisione sistematica di una singola specie, possono essere interpretati come segnali di un’imminente sconvolgimento di uno stile di vita piacevole, rimasto statico a lungo proprio perché piacevole. Nelle parole di Clark, la “penuria e la fatica quotidiana” propri dell’agricoltura rappresentano il veicolo della cultura, “razionale” solo nel suo perenne disequilibrio e nella logica progressione verso distruzioni sempre più grandi, come sarà sottolineato oltre.
Anche se il termine cacciatore-raccoglitore dovrebbe essere invertito (ed è stato fatto da non pochi odierni antropologi), dato che si è riconosciuto il fatto che la raccolta costituisce di gran lunga la principale fonte di sopravvivenza, la natura della caccia procura seri contrasti all’addomesticamento. La relazione tra il cacciatore e l’animale cacciato, il quale è sovrano, libero e persino considerato alla pari, ovviamente è diversa da quella tra il coltivatore o il mandriano e i suoi beni schiavizzati sui quali ha il dominio assoluto.
La dimostrazione della necessità di imporre l’ordine o di soggiogare si riscontra nei riti coercitivi e nei tabù sull’impurità dell’incipiente religione. L’eventuale sottomissione del mondo, che è l’agricoltura, poggia come minimo alcune delle sue basi laddove il comportamento ambiguo è inammissibile, e purezza e contaminazione sono definite e imposte.
Lévi-Strauss ha definito la religione come l’antropomorfismo della natura; la spiritualità più arcaica compartecipava con la natura senza imporre su di essa peculiarità o valori culturali. Il sacro significa che ciò che è separato, come il rituale o la formalizzazione, sempre più rimosso dalle attività correnti della vita quotidiana e posto sotto il controllo di specialisti quali preti e sciamani, è strettamente legato alla gerarchia e al potere istituzionalizzato. La religione emerge per motivare e legittimare la cultura, attraverso un ordine di realtà “più alto”; è particolarmente necessaria nella sua funzione di mantenimento della solidarietà sociale, a causa delle esigenze innaturali dell’agricoltura.
Nel villaggio neolitico di Catal Hüyük nell’Anatolia turca, una stanza ogni tre veniva usata per scopi rituali. Arare e seminare possono essere interpretati come rinunce rituali, secondo Burkert, una forma di repressione sistematica accompagnata da un elemento sacrificale. Quanto al sacrificio, che consiste nell’uccisione di animali addomesticati (o addirittura di esseri umani) per scopi rituali, esso pervade le società agricole e si trova solamente qui.
Alcune fra le principali religioni neolitiche hanno tentato spesso una guarigione simbolica della frattura tra agricoltura e natura tramite la mitologia della madre terra che, inutile ricordare, non fa nulla per restaurare l’antica unità. Centrali sono pure i miti sulla fertilità: l’egiziano Osiride, la greca Persefone, il cananeo Baal e il neotestamentario Gesù, divinità la cui morte e resurrezione testimonia della perseveranza del suolo, per non dire dell’anima umana. I primi templi hanno significato il sorgere di cosmologie basate su di un modello dell’universo inteso come arena di addomesticamento o come aia, che a turno servono per giustificare la soppressione dell’autonomia umana. Mentre la società precivilizzata, come dice Redfield, è “tenuta insieme da concezioni etiche prevalentemente non dichiarate ma continuamente realizzate,” la religione si è sviluppata come strumento per creare cittadini, ponendo l’ordine morale sotto l’amministrazione pubblica.
L’addomesticamento ha implicato l’inizio della produzione, un grande aumento della divisione del lavoro e il completamento delle fondamenta della stratificazione sociale. Ciò è equivalso a una mutazione epocale sia nel carattere dell’esistenza umana che nel suo sviluppo, oscurando quest’ultimo con sempre maggiore violenza e lavoro. A proposito, contrariamente al mito del cacciatore-raccoglitore violento e aggressivo, recenti prove mostrano che le popolazioni esistenti non agricole, quali i Mbuti (“pigmei”) studiati da Turnbull, probabilmente uccidono senza alcuno spirito aggressivo, perfino con una sorta di rammarico. D’altra parte, la guerra e la formazione di qualsiasi civiltà o Stato sono indissolubilmente collegati.
I primitivi non si battevano per le zone in cui gruppi separati sarebbero potuti convergere nelle loro attività di caccia e di raccolta. Perlomeno lotte “territoriali” non fanno parte della letteratura etnografica e sembrerebbe assai poco probabile che siano avvenute nella preistoria, quando le risorse erano più vaste e i contatti con la civiltà inesistenti.
Inoltre questi popoli non avevano alcun concetto di proprietà privata, e il giudizio simbolico di Rousseau, secondo cui la società divisa venne fondata dall’uomo che per primo seminò un pezzo di campo dicendo “Questa terra è mia”, e scoprì che gli altri gli credevano, è essenzialmente valida. “Mio e tuo, semi di ogni discordia, non hanno posto tra loro,” si legge nel resoconto di Pietro del 1511 a proposito dei nativi incontrati nel secondo viaggio di Colombo. Secoli dopo, i nativi americani sopravvissuti domandarono: “Vendere la terra? Perché non vendere l’aria, le nuvole, il grande mare?” L’agricoltura crea ed esalta i possedimenti; consideriamo la radice longing del termine belongings, come se essi non abbiano mai compensato la perdita.
Analogamente il lavoro, come categoria distinta di vita, non esisteva prima dell’agricoltura. La capacità umana di essere vincolati a mandrie e raccolti si è trasmessa piuttosto in fretta. La produzione di cibo ha sopraffatto la comune assenza o scarsità di rituale e gerarchia nella società, e ha introdotto attività civilizzate come il lavoro forzato per la costruzione di templi. Qui risiede la vera “divisione cartesiana” tra realtà interna ed esterna, la separazione con cui la natura diventa semplicemente qualcosa da “lavorare”. Su questa capacità di esistenza sedentaria e servile poggia l’intera sovrastruttura della civilizzazione con il suo carico crescente di repressione.
La violenza maschile sulle donne ha origine con l’agricoltura, che le trasforma in bestie da soma e generatrici di prole. Prima della coltivazione, l’egualitarismo della vita fatta di ricerca del cibo “si applicava pienamente tanto alle donne quanto agli uomini,” ritenne Eleanor Leacock, data l’autonomia dei compiti e il fatto che le decisioni venivano prese da chi le portava a termine. In assenza della produzione e dei duri lavori adatti ai bambini come la sarchiatura, le donne non erano confinate ai pesanti lavori domestici o alla fornitura costante di prole.
Insieme alla maledizione del lavoro perpetuo tramite l’agricoltura, espellendola dall’Eden Dio disse alla donna: “Io moltiplicherò i tuoi affanni e le tue gravidanze: con dolore partorirai i tuoi figlioli, sarai sotto la potestà del marito, ed egli ti dominerà.” In modo simile, le prime leggi codificate conosciute, quelle del re sumero Ur-Namu, prescrivevano la morte per tutte le donne che avessero soddisfatto i loro desideri al di fuori del matrimonio. Così Whyte ha parlato del terreno che le donne “persero rispetto agli uomini quando l’umanità abbandonò la vita semplice di caccia e di raccolta;” e Simone de Beauvoir ha visto nell’equazione culturale aratro/fallo un simbolo appropriato dell’oppressione delle donne.
Così come gli animali selvaggi sono trasformati in inerti macchine produttrici di carne, il concetto di diventare “colti” è una virtù imposta alle persone: significa lo sradicamento della libertà della propria natura in favore di addomesticamento e sfruttamento. Come indica Rice, nei Sumeri, la prima civiltà, le più antiche città possedevano fabbriche caratterizzate da un’elevata organizzazione e specializzazione. Da allora la civilizzazione esige il lavoro umano e la produzione di massa di cibo, costruzioni, guerre e autorità.
Per i greci il lavoro era nient’altro che una maledizione. Il suo nome – ponos – ha la stessa radice del latino poena, dolore. Nell’Antico Testamento la famosa condanna al lavoro agricolo in seguito alla cacciata dal paradiso (Genesi 3:17-18) ci ricorda le origini del lavoro. Come dice Mumford, “Conformità, ripetizione, pazienza erano le chiavi di questa cultura [del neolitico] … la paziente capacità di lavorare. ” Nella monotonia e passività dell’attesa e della custodia nascono, secondo Paul Shepard, il “profondo e latente rancore, crudo miscuglio di rettitudine e malinconia, e la mancanza di umorismo” del contadino. Si potrebbero aggiungere alle caratteristiche largamente attribuite alla vita addomesticata degli agricoltori una stoica insensibilità e la mancanza di immaginazione inseparabili da fede religiosa, astiosità e sospetto.
Sebbene la produzione di cibo per sua natura implichi una sollecitudine latente alla dominazione politica, e sebbene la cultura civilizzatrice fin dall’inizio sia stata la sua particolare macchina di propaganda, tale cambiamento radicale ha comportato una monumentale lotta. In proposito Against Leviathan! Against His-Story di Fredy Perlman non ha rivali e approfondisce ampiamente l’attenzione posta da Toynbee su “proletari esterni” e “interni” e sui malcontenti fuori e dentro la civiltà. Ciononostante, lungo l’asse che va dalle coltivazioni fatte scavando con i bastoni, all’uso dell’aratro, fino ai sistemi di irrigazione completamente differenziati, è stato necessariamente perpetrato un genocidio pressoché totale di raccoglitori e cacciatori.
La produzione e l’immagazzinamento delle eccedenze fanno parte della volontà addomesticatrice di controllare e rendere statico, che è un aspetto della tendenza a simbolizzare. Baluardo contro il flusso della natura, l’eccedenza assume le sembianze di mandrie di animali e di granai. Il grano immagazzinato è stato la prima misura di equivalenza, la più antica forma di capitale. Soltanto con la comparsa dell’opulenza sottoforma di cereali immagazzinabili si procede alla suddivisione in gradi del lavoro e delle classi sociali. Benché esistessero certamente cereali selvatici prima di tutto questo (a proposito, il grano selvatico conteneva il 24% di proteine rispetto al 12% di quello addomesticato) è la distorsione della cultura a fare la differenza. La civilizzazione e le sue città si basano molto più sui granai che sulla simbolizzazione.
Il mistero dell’origine dell’agricoltura sembra ancor più impenetrabile alla luce del recente capovolgimento delle nozioni di vecchia data secondo cui l’era precedente fu caratterizzata dall’ostilità verso la natura e dall’assenza di comodità. “Non si può più accettare,” scrive Arne, “il fatto che i primi uomini abbiano addomesticato piante e animali per sfuggire alla fatica e alla fame. Se mai è parso vero il contrario e l’avvento della coltivazione vide la fine dell’innocenza.” Per lungo tempo la domanda è stata: “Perché l’agricoltura non venne adottata molto prima nell’evoluzione umana?” Più di recente sappiamo che l’agricoltura, secondo le parole di Cohen, “non è più facile della caccia e della raccolta e non fornisce un miglioramento nella qualità, nel gusto e nella sicurezza di approvvigionamento degli alimenti.” Così oggi la domanda unanime è: “Perché venne adottata?”
Sono state avanzate molte teorie, nessuna convincente. Childe e altri sostengono che l’aumento della popolazione spinse le società umane a più stretto contatto con le altre specie, portando all’addomesticamento e alla necessità di produrre al fine di dare da mangiare a queste ulteriori persone. Ma è stato dimostrato in modo abbastanza definitivo che l’aumento di popolazione non ha preceduto l’agricoltura ma è stato provocato da essa. “Non vedo alcuna traccia nel mondo,” concluse Flannery, “che suggerisca che la pressione della popolazione fu responsabile dell’inizio dell’agricoltura.” Un’altra teoria vuole che furono i grandi cambiamenti climatici avvenuti alla fine del Pleistocene, circa 11.000 anni fa, a sconvolgere la vecchia vita/mondo del cacciatore e del raccoglitore e a portare direttamente alla coltivazione di alcuni alimenti base sopravvissuti. Metodi recenti di datazione hanno aiutato a demolire questo approccio; non si è verificato alcun cambiamento climatico tale da poter imporre questo nuovo modo di esistenza. Inoltre, ci sono parecchi esempi di agricoltura adottata – o rifiutata – in qualsiasi tipo di clima. Un’altra tra le ipotesi principali vuole che l’agricoltura sia stata introdotta grazie a una scoperta casuale o a un’invenzione, come se prima di un momento preciso non fosse mai capitato alle diverse specie, ad esempio, di veder crescere del cibo da un seme germogliato. Sembra certo che l’umanità del Paleolitico possedeva una conoscenza praticamente inesauribile della flora e della fauna per molte decine di migliaia di anni prima dell’inizio della coltivazione di piante, cosa che rende questa teoria particolarmente debole.
È sufficiente infatti essere d’accordo con il sunto di Carl Sauer, “L’agricoltura non ebbe origine da una crescente o cronica mancanza di cibo” per respingere di fatto tutte le teorie sulle origini che sono state avanzate. Una restante idea, presentata da Hahn, Isaac e altri, sostiene che la produzione di cibo iniziò essenzialmente come attività religiosa. Questa ipotesi sembra molto più plausibile.
Pecore e capre, i primi animali ad essere addomesticati, sono state largamente usate nelle cerimonie religiose, allevate in prati recintati per scopi sacrificali. Prima di essere addomesticate, inoltre, le pecore non avevano una lana adatta a scopi tessili. Secondo Darby, il principale uso che si faceva della gallina nel sud-est asiatico e nel mediterraneo orientale – i primi centri di civilizzazione – “sembra essere stato sacrificale e divinatorio piuttosto che alimentare.” Sauer aggiunge che nei polli domestici “il covare le uova e produrre carne gustosa sono le caratteristiche relativamente tardive del loro addomesticamento.” I bovini selvatici erano feroci e pericolosi; non si sarebbe potuto prevedere né la docilità dei buoi né la consistenza modificata della carne di questi castrati. Le mucche non sono state munte che secoli dopo la loro iniziale cattività, mentre le raffigurazioni indicano che vennero imbrigliate la prima volta per trainare il carro durante le processioni religiose.
Per quel che sappiamo le piante, prossime a essere controllate, mostrano un retroterra simile. Prendiamo l’esempio di zucca e zucchina nel Nuovo Mondo, originariamente adoperate come sonagli cerimoniali. Johannessen ha discusso le ragioni mistiche e religiose connesse all’addomesticamento del mais, la coltura più importante del Messico e perno della sua nativa religione neolitica. Similmente Anderson ha indagato sulla selezione e sullo sviluppo di diversi tipi di piante coltivate per il loro significato magico. Gli sciamani, dovrei aggiungere, erano in una posizione di potere favorevole per introdurre l’agricoltura tramite l’addomesticamento e la coltivazione comportati dal rituale e dalla religione, come detto a grandi linee in precedenza.
Sebbene la motivazione religiosa delle origini dell’agricoltura sia stata piuttosto trascurata, secondo la mia opinione essa ci porta soltanto alle soglie della spiegazione reale della nascita della produzione: quella forza di alienazione culturale e non razionale che si è diffusa, sottoforma di tempo, linguaggio, numero e arte, per colonizzare definitivamente la vita materiale e psichica nell’agricoltura. “Religione” è un concetto troppo limitato per spiegare questa infezione e la sua propagazione. La dominazione è troppo gravosa, troppo onnicomprensiva per essere stata portata solamente da quella patologia che è la religione.
Ma i valori culturali di controllo e uniformità che appartengono alla religione fanno certamente parte dell’agricoltura, fin dall’inizio. Rilevando che le varietà di cereali si impollinano tra loro molto facilmente, Anderson ha studiato i Naga, una tribù dell’Assam dedita a una forma molto primitiva di agricoltura, e una loro varietà di cereale che non presenta differenza da pianta a pianta. Fedeli alla cultura, dimostrando che essa si compie solo con l’inizio della produzione, i Naga hanno mantenuto le loro varietà così pure “solo grazie a una fede fanatica verso un tipo ideale.” Questo è un esempio del matrimonio tra cultura e produzione nell’addomesticamento, e della sua inevitabile progenie, repressione e lavoro.
La cura scrupolosa dedicata alle varietà di piante trova il suo parallelo nell’addomesticamento degli animali, che pure rifiuta di obbedire alla selezione naturale e ri-stabilisce il mondo organico controllabile ad un livello astratto, degradato. Come le piante, gli animali sono soltanto cose da manipolare; una mucca, ad esempio, è vista come un tipo di macchinario che trasforma i grassi in latte. Tramutati da una condizione di libertà a quella di parassiti inermi, questi animali diventano totalmente dipendenti dall’uomo per sopravvivere. Nei mammiferi domestici di norma la dimensione del cervello diventa progressivamente più piccola allorché vengono prodotti degli esemplari che dedicano più energia alla crescita e meno all’attività. Placidi, resi infantili e forse rappresentati al meglio dalle pecore, quelle più addomesticate tra gli animali che vivono in gruppo; la straordinaria intelligenza delle pecore selvatiche è completamente assente nelle loro controparti domestiche. Le relazioni sociali esistenti tra gli animali domestici sono ridotte alla più cruda essenzialità. Gli aspetti non riproduttivi del loro ciclo vitale sono ridotti al minimo, il corteggiamento è limitato e la capacità stessa degli animali di riconoscere la propria specie viene pregiudicata.
L’agricoltura ha creato anche le premesse per la rapida distruzione dell’ambiente, e il dominio sulla natura è cominciato ben presto a trasformare il verde manto che ricopriva i luoghi di nascita della civilizzazione in aree sterili e prive di vita. Zeuner stima che “fin dall’inizio del Neolitico vaste regioni hanno cambiato completamente il loro aspetto, sempre verso condizioni di semi aridità.” Oggi i deserti occupano la maggior parte delle zone dove sono fiorite le civiltà avanzate; esistono molte testimonianze storiche sul fatto che queste antiche formazioni inevitabilmente hanno rovinato i territori loro circostanti.
In tutto il bacino del Mediterraneo, nell’attiguo Vicino Oriente e in Asia l’agricoltura ha trasformato lande lussureggianti e ospitali in terreni svuotati, secchi e rocciosi. In Crizia Platone descrive l’Attica come “uno scheletro devastato dalla malattia,” riferendosi alla deforestazione della Grecia e in contrasto con la sua antica ricchezza. Il pascolo di capre e pecore, i primi ruminanti addomesticati, è stato uno dei fattori maggiormente responsabili del denudamento di Grecia, Libano e Nordafrica, e della desertificazione degli imperi Romano e Mesopotamico.
Un ulteriore e più immediato impatto dell’agricoltura, portato sempre più alla luce negli ultimi anni, riguarda il benessere fisico dei suoi soggetti. Le ricerche di Lee e Devore mostrano che “la dieta dei popoli raccoglitori era molto migliore di quella dei coltivatori, la fame rara, lo stato di salute generalmente superiore, e c’era una minor incidenza di malattie croniche.” Al contrario, Farb riassume: “La produzione garantisce una dieta inferiore basata su un numero limitato di alimenti, è molto meno affidabile a causa di malattie, parassiti e capricci del tempo, ed è molto più costosa in termini di lavoro umano speso.”
Il nuovo campo di studi della paleopatologia ha raggiunto conclusioni addirittura più enfatiche, sottolineando, come ha fatto Angel, il “netto declino di crescita e nutrizione” provocato dal passaggio dalla raccolta alla produzione di cibo. Anche le vecchie conclusioni circa la durata della vita sono state riviste. Sebbene i resoconti dei testimoni oculari spagnoli del sedicesimo secolo raccontino che gli anziani indiani della Florida prima di morire vedevano la loro quinta generazione, per lungo tempo si è creduto che i primitivi morivano tra i trenta e i cinquant’anni. Robson, Boyden e altri hanno dissipato la confusione tra longevità e aspettativa di vita e scoperto che gli odierni cacciatori-raccoglitori, salvo incidenti e gravi infezioni, spesso vivono più a lungo dei loro contemporanei civilizzati. Nel corso dell’era industriale la vita della specie si è allungata solo abbastanza di recente, e oggi è largamente risaputo che nel Paleolitico gli esseri umani erano gli animali più longevi, una volta superati alcuni rischi. È corretto il giudizio di DeVries secondo cui la durata della vita è diminuita bruscamente al contatto con la civilizzazione.
“La tubercolosi e la diarrea dovettero attendere il sorgere della coltivazione, morbillo e peste bubbonica la comparsa di grosse città,” ha scritto Jared Diamond. La malaria, probabilmente la più grande singola assassina dell’umanità, e quasi tutte le altre malattie infettive sono l’eredità dell’agricoltura. Le malattie nutrizionali e degenerative in genere sono comparse insieme al regno di cultura e addomesticamento. Cancro, trombosi coronarica, anemia, carie dentali e disordini mentali sono solo alcuni dei marchi dell’agricoltura; prima le donne partorivano senza difficoltà e con poco o nessun dolore.
Le persone avevano i loro sensi molto più vivi. I !Kung San, racconta Post, hanno udito un aeroplano a un motore alla distanza di 70 miglia, e molti di loro riescono a vedere quattro lune di Giove a occhio nudo. Il giudizio riassuntivo di Harris e Ross tende a minimizzare “il declino generale della qualità – e probabilmente della lunghezza – della vita presso gli agricoltori in paragone agli antichi gruppi di cacciatori-raccoglitori,” .
Una delle idee più persistenti e universali è che un tempo ci fu un’innocente Età dell’Oro prima dell’inizio della storia. Ad esempio, Esiodo parlò della “terra conservatrice della vita, che porta i suoi frutti copiosi non corrotta dalla fatica.” L’Eden era chiaramente la dimora dei cacciatori-raccoglitori e l’ardente desiderio espresso dalle immagini storiche del paradiso dev’essere stato quello dei disillusi coltivatori della terra per la perdita di una vita di libertà e di relativo agio. La storia della civilizzazione mostra una crescente rimozione della natura dall’esperienza umana, caratterizzata in parte da una diminuzione dell’assortimento alimentare. Secondo Rooney, i popoli preistorici trovavano sostentamento in più di 1500 specie di piante selvatiche, laddove, come ci ricorda Wenke, “Tutte le civiltà si sono basate sulla coltivazione di una o più specie di queste sei piante: grano, orzo, miglio, riso, mais e patata.”
È una verità impressionante che nel corso dei secoli “il numero dei diversi cibi commestibili che attualmente vengono mangiati è costantemente diminuito,” come fa notare Pyke. La sussistenza della popolazione mondiale dipende oggi in gran parte da appena venti generi di piante mentre le loro varietà naturali sono sostituite da ibridi artificiali e il corredo genetico di queste piante diventa sempre meno vario.
La diversità alimentare tende a scomparire o ad appiattirsi coll’aumentare della proporzione di cibi confezionati. Oggi gli stessi prodotti alimentari sono distribuiti in tutto il mondo cosicché un Inuit eskimese e un nativo africano potranno presto mangiare latte in polvere fabbricato nel Wisconsin o bastoncini di pesce congelato provenienti dalla stessa fabbrica svedese. Poche grosse multinazionali quali l’Unilever, la principale industria alimentare del mondo, esercitano il comando su di un sistema di servizi altamente integrato il cui scopo non è quello di nutrire o anche solo sfamare, bensì di imporre al mondo intero un consumo sempre maggiore di prodotti fabbricati, trasformati e conservati.
Quando Cartesio ha enunciato il principio secondo cui il solo dovere dell’uomo è il più completo sfruttamento della materia per qualsiasi uso, la nostra separazione dalla natura era in pratica compiuta e la scena era pronta per la Rivoluzione Industriale. Trecentocinquant’anni dopo questo spirito sopravvive nella persona di Jean Vorst, amministratore del Museo di Storia Naturale francese, il quale sostiene che la nostra specie, “a causa dell’intelletto,” non può più ri-attraversare una certa linea di civilizzazione e diventare nuovamente parte dell’ambiente naturale. Inoltre dichiara, esprimendo perfettamente l’originario e perdurante imperialismo dell’agricoltura, “Poiché il mondo nel suo stato primitivo non viene adottato per la nostra espansione, l’uomo deve incatenarlo per compiere il suo destino.”
Le prime fabbriche hanno letteralmente imitato il modello agricolo, dimostrando nuovamente che alla base di tutta la produzione di massa c’è la coltivazione. Il mondo naturale sta per essere spezzato e costretto a lavorare. Pensiamo alle praterie del centro degli Stati Uniti dove i coloni dovettero mettere il giogo a sei buoi per scassare il terreno la prima volta. Oppure a una scena di The Octopus di Frank Norris, ambientato negli anni ’70 dell’ottocento, in cui mandrie di bestie aggiogate venivano condotte come “una grande colonna di artiglieria da campo” attraverso la valle di San Joaquin, incidendo 175 solchi alla volta.
Oggi l’organico, ciò che è rimasto di lui, è completamente meccanizzato sotto l’egida di alcune compagnie petrolchimiche. I loro fertilizzanti, erbicidi e pesticidi artificiali e il quasi monopolio mondiale dell’assortimento di semi determinano un ambiente totale che integra la produzione di cibo dalla semina al consumo. Sebbene Lévi-Strauss sostenga giustamente che “La civilizzazione produce monoculture quale la barbabietola da zucchero,” un orientamento completamente sintetico ha iniziato a dominare soltanto dalla Seconda Guerra Mondiale.
L’agricoltura prende dal terreno più materia organica di quanta ne restituisca, e l’erosione del suolo è alla base delle monocolture a ciclo annuale. A proposito di queste ultime, molte vengono promosse con effetti devastanti per la terra; insieme a cotone e soia i cereali, la cui esistenza nell’attuale condizione addomesticata dipende completamente dall’agricoltura, sono particolarmente dannosi. J. Russel Smith li chiama “gli assassini dei continenti … e tra i peggiori nemici del futuro dell’umanità.” Il costo in termini di erosione di un bushel (circa 350 m2) di grano dello Iowa è di due bushel di strato superficiale del suolo, evidenziando la generale distruzione industriale su vasta scala dei terreni agricoli. La continua coltivazione di immense monocolture, con l’uso massiccio di prodotti chimici e senza adoperare letame o humus, ovviamente causa il deterioramento del suolo e la perdita di terreno a livelli estremamente elevati.
Secondo il metodo agricolo dominante il terreno necessita di massicci spargimenti di prodotti chimici, sotto la supervisione di tecnici il cui scopo assoluto è di massimizzare la produzione. In questa prospettiva i fertilizzanti artificiali e tutto il resto eliminano l’esigenza di una vita complessa del suolo e di fatto lo trasformano in un mero strumento di produzione. La promessa della tecnologia è il controllo totale, un ambiente completamente artefatto che semplicemente soppianta il naturale equilibrio della biosfera.
Ma, incuranti della contaminazione con sostanze tossiche del terreno, delle falde idriche e del cibo, si spende ancora più energia per ottenere grosse rese dalle monocolture che cominciano a mostrare segni di declino. Il Ministero dell’Agricoltura statunitense ammette che l’erosione dei terreni coltivati in questo paese ammonta a due miliardi di tonnellate di suolo all’anno. L’Accademia Nazionale di Scienze stima che più di un terzo dello strato superficiale del suolo è ormai perduto per sempre. Lo squilibrio ecologico causato dalle monocolture e dai fertilizzanti sintetici provoca un’enorme aumento dei parassiti e delle malattie delle piante; dalla Seconda Guerra Mondiale le perdite di raccolti provocate dagli insetti sono effettivamente raddoppiate. La tecnologia risponde, ovviamente, con un aumento vertiginoso dell’applicazione di ulteriori fertilizzanti sintetici, di prodotti che uccidono erbacce e parassiti, accelerando il crimine perpetrato contro la natura.
Un altro fenomeno post-bellico è stata la Rivoluzione Verde, preannunciata come la salvezza del Terzo Mondo impoverito dal capitale e dalla tecnologia statunitensi. Ma invece di cibare gli affamati, la Rivoluzione Verde ha spinto milioni di poveri ad abbandonare le campagne in Asia, America Latina e Africa, vittime del programma che favorisce le grosse imprese agricole. Ciò ha equivalso a un’enorme colonizzazione tecnologica che ha creato una dipendenza dall’agrobussiness ad alta intensità di capitale, ha distrutto l’antico comunalismo agrario, ha imposto un consumo massiccio di combustibile fossile e ha preso d’assalto la natura a livelli mai vista prima.
La desertificazione, o perdita di terreni causata dall’agricoltura, è in continuo aumento. Ogni anno nel mondo un’area totale equivalente al doppio della superficie del Belgio viene trasformata in deserto. La sorte delle foreste tropicali del pianeta è un fattore nell’accelerazione di questa disseccazione: la metà di esse è stata cancellata negli ultimi trent’anni. In Botswana, l’ultima regione selvatica dell’Africa è scomparsa, così come la maggior parte della giungla amazzonica e più della metà delle foreste pluviali dell’America Centrale, principalmente per allevare bestiame per i mercati di hamburger di Stati Uniti ed Europa. Le poche zone salvatesi dalla deforestazione sono quelle in cui l’agricoltura non vuole andare; la distruzione della terra sta procedendo negli Stati Uniti sopra un’area più grande di quella che comprendeva le tredici colonie originarie, così come avviene nel cuore delle dure carestie africane degli anni ’80 e nell’estinzione di specie di animali e piante selvatiche una dopo l’altra.
Tornando agli animali, ricordiamoci delle parole della Genesi in cui Dio dice a Noè, “(…) e il timore e lo spavento di voi invada tutti gli animali della terra, tutti gli uccelli dell’aria. E tutto ciò che si muove sulla terra e tutti i pesci del mare sono dati in vostro potere.” Quando territori appena scoperti sono stati visitati dall’avanguardia della produzione, come racconta un’ampia letteratura descrittiva, gli uccelli e gli animali selvatici non hanno mostrato alcuna paura verso gli esploratori. La mentalità divenuta agricola, tuttavia, così appropriatamente prevista nel passaggio biblico, nutre una convinzione esagerata nella ferocia della creature selvatiche, che deriva da una progressiva estraniazione e perdita di contatto con il mondo animale sommata al bisogno di mantenere il dominio su di esso.
Il destino degli animali addomesticati è determinato dal fatto che i tecnici agricoli guardano continuamente alle fabbriche come modelli per migliorare i loro sistemi di produzione. La natura è bandita da questi sistemi, allorché gli animali delle fattorie vengono sempre più tenuti in uno stato di semi immobilità durante la loro intera vita deformata, costretti a vivere in ambienti sovraffollati e completamente artificiali. Miliardi di polli, maiali e vitelli, ad esempio, non hanno quasi mai visto la luce del giorno né tantomeno pascolato nei campi, campi che diventano sempre più silenziosi dal momento che sempre più pascoli vengono arati per far crescere mangimi per questi esseri orrendamente segregati.
I polli ad alta tecnologia, a cui sono state tagliate le punte del becco per ridurre le morti in seguito a combattimenti provocati dallo stress, spesso vivono in quattro o cinque in gabbie di MISURA e vengono periodicamente privati di acqua e cibo fino a un periodo massimo di dieci giorni per regolare i loro cicli di posa delle uova. I maiali vivono sopra superfici di cemento senza lettiere; putrefazione agli arti, morsi alla coda e cannibalismo sono endemici a causa dello stress e delle condizioni fisiche. Le scrofe allattano i maialini separati da grate metalliche che sbarrano il contatto naturale tra madri e figli. I vitelli vengono spesso fatti crescere nell’oscurità, incatenati in stalle così strette da impedire loro di rigirarsi e di assumere posizioni normali. Questi animali sono generalmente sotto il regime di costanti cure mediche dovute alle torture in questione e alla loro accresciuta predisposizione alle malattie: la produzione automatizzata di animali si affida a ormoni e antibiotici. Questa crudeltà sistematica, per non parlare del tipo di cibo che ne risulta, ci riporta alla mente il fatto che la cattività stessa e ogni forma di asservimento hanno come progenitrice o modello l’agricoltura.
Il cibo ha rappresentato uno dei nostri contatti più diretti con l’ambiente naturale, tuttavia stiamo diventando sempre più dipendenti da un sistema di produzione tecnologico in cui alla fine anche i nostri sensi sono diventati superflui; il gusto, un tempo elemento vitale nel giudicare il valore e la sicurezza di un alimento, non viene più percepito quanto piuttosto certificato da un’etichetta. In generale, diminuisce la salubrità di ciò che consumiamo, mentre terre un tempo coltivate a scopo alimentare ora producono caffè, tabacco, cereali per gli alcoolici, marijuana e altre droghe, creando le premesse per la carestia. Anche cibi non trasformati quali frutta e verdura vengono oggi coltivati per essere uniformi e privi di sapore, poiché si tengono in considerazione più le esigenze di maneggevolezza, trasporto e immagazzinamento che non quelle nutritive o legate al piacere.
Una guerra totale ha preso in prestito dall’agricoltura i mezzi per defoliare milioni di acri nel Vietnam, ma la depredazione della biosfera avanza in maniera ancora più letale nelle sue forme globali, quotidiane. Il cibo come funzione della produzione ha inoltre miseramente fallito al livello anche più manifesto: la metà del mondo, come tutti sanno, soffre di una malnutrizione che oscilla verso la morte per inedia.
Nel frattempo, le “malattie della civiltà,” discusse da Eaton e Konner nel New England Journal of Medicine del 31 gennaio 1985 e paragonate alle diete salutari preagricole, sottolineano il triste e sofferente mondo di disadattamento cronico in cui abitiamo, preda dei fabbricanti di medicine, di cosmetici e di cibi confezionati. L’addomesticamento raggiunge nuovi culmini di patologia nell’ingegneria genetica dei cibi, in vista di nuovi tipi di animali così come di microrganismi e piante innaturali. Logicamente, anche l’umanità stessa diventerà addomesticata da quest’ordine dato che il mondo della produzione ci trasforma tanto quanto degrada e deforma ogni altro sistema naturale.
Il progetto di sottomissione della natura, iniziato e portato avanti dall’agricoltura, ha assunto proporzioni gigantesche. Il “successo” del progresso della civiltà, un successo che l’antica umanità non ha mai voluto, ha sempre più il gusto della cenere. James Serpell lo riassume così: “In breve, abbiamo raggiunto il limite. Non ci possiamo espandere; sembriamo incapaci di intensificare la produzione senza compiere ulteriori devastazioni, e il pianeta sta diventando velocemente una terra desolata.” Lee e Devore hanno notato con quale rapidità si sia verificato tutto questo e come, a “un archeologo interplanetario del futuro,” apparirebbe il destino probabile della civilizzazione: “…un periodo molto lungo e stabile di caccia e raccolta su piccola scala fu seguito da una fioritura apparentemente istantanea della tecnologia…che ha portato rapidamente all’estinzione. ‘Stratigraficamente’ l’origine dell’agricoltura e la distruzione termonucleare sembreranno essenzialmente simultanei.”
Il fisiologo Jared Diamond definisce l’inizio dell’agricoltura “una catastrofe da cui non ci siamo ancora ripresi.” L’agricoltura è stata e rimane a tutti i livelli una “catastrofe”, quella che sta alla base dell’intera cultura spirituale dell’alienazione che ci sta oggi distruggendo. La liberazione è impossibile senza la sua dissoluzione.
AGGIUNTA (Luglio 2000)
Da quando questo saggio è stato scritto a metà degli anni ’80, la logica dell’addomesticamento ha continuato a manifestarsi. Insieme a una sempre maggiore divisione del lavoro e alla rapida tecnicizzazione della vita a ogni livello, la dominazione sembra trovare nuovi terreni di applicazione.
Le forme di vita geneticamente alterate, piante e animali, nel nuovo millennio rappresentano l’ultima frontiera del Mondo Nuovo che sta avverandosi. L’intera esistenza non è nient’altro che materia da progettare, programmare, clonare da parte di scienze che non sono mai state così interamente asservite al paradigma dominante.
Questo infetta il modo stesso con cui percepiamo la realtà. Una società di consulenza New Age pubblicizza le sue virtù proclamando, “L’amore non è un mistero; è una tecnologia.” È tutta acqua per il mulino del pensiero strumentale, niente si salva dall’impostazione meccanica, dall’analogia della macchina.
La clonazione umana è imminente, cosa la può impedire? Il vivente diviene sempre più sterile: riprogrammazione con antidepressivi, revisione genetica e pianificazione del futuro tramite analisi. La natura è ciò che tecnologia e capitale hanno deciso che sarà, vale a dire la fine di qualsiasi ambito non addomesticato. Le foreste naturali diventano vivai; le nostre emozioni, che languono su terreni aridi, necessitano di regolari manipolazioni chimiche. Il nemico non sono soltanto le multinazionali. È l’addomesticamento stesso. Giorno dopo giorno e ad ogni nuovo livello di penetrazione e controllo, il disastro chiamato agricoltura diventa sempre più facile da percepire. La salute e la libertà ne esigono la fine.